Comunicazione e qualità della vita
Una chiacchierata con Valentina Aversano, consulente strategica e autrice di Posta creativa
Valentina Aversano fa la consulente strategica: aiuta freelance e aziende a capire come comunicare e raccontarsi online. Ogni domenica pubblica la newsletter
, mentre “legge e ride”, come racconta, con il progetto Strategie Prenestine.Mi piaceva l’idea di inaugurare le interviste di Sobrietà proprio con Valentina, dato che è stata la prima persona con cui mi sono confrontato sulla possibilità di mettere in piedi questa newsletter.
Con Valentina abbiamo parlato della sua esperienza in comunicazione e di qualità della vita negli ambienti digitali, prima di tutto per chi ci lavora. Buona lettura.
Ciao Valentina. Partiamo dal posto in cui ci troviamo: una newsletter, cioè uno tra gli strumenti digitali più anziani di cui disponiamo. In che fase si trovano le newsletter adesso, secondo te?
Una fase che mi piace molto, quella in cui decidere di lanciarne una non sembra più un fatto strano, quasi carbonaro. Certo, c’è ancora chi non distingue una mail commerciale da un progetto editoriale e crede che tutto sia spam, ma dall’altro lato io vedo una rinnovata voglia di scrivere per farsi leggere, entrare in connessione e far girare le idee, un po’ come succedeva al tempo dei blog. Non penso che il mondo dei progetti molto letti e famosi sia saturo né che viviamo in una bolla che a breve scoppierà, vedo più una fioritura di spazi di libertà che al momento non troviamo più altrove, almeno non sui social dove si fa di tutto per propiziarsi la Divinità Algoritmo, salvo poi accumulare tanta frustrazione per contenuti su cui si spende tempo e sudore e poi li vedono solo in tre.
Tu a che punto sei invece, rispetto alla tua vita professionale?
Anche io sono in una fase che mi piace molto e che percepisco un po’ più come una discesa rispetto alla fatica delle salite degli ultimi anni. A maggio 2021 mi sono dimessa da responsabile della comunicazione digitale di un editore indipendente, l’ho fatto per burnout. Quando ho lasciato il lavoro che facevo da nove anni, che era tutto il mio mondo e che mai avrei pensato di poter sostituire con altro, mi sono promessa che qualsiasi cosa avessi fatto in futuro, non sarei mai più stata così male. Tutto quello che ho costruito dopo l’ho messo su seguendo alla lettera questo principio.
Quindi sei ripartita da zero?
Sì, con la partita iva ho iniziato a occuparmi di strategie e non di operatività social, ma ogni volta che mi è scattato il tasto salvavita interiore mi sono messa in discussione e ho aggiustato la rotta, fino ad arrivare a quello che faccio adesso, un punto un po’ diverso da quello di partenza. Credevo che sarei rimasta in ambito editoriale, ma in un altro ruolo, invece ho allargato il campo e adesso sono contenta di poter dire che sbrino i progetti di comunicazione digitale, li aiuto a partire e a somigliarsi di più quando devono raccontarsi. Trovo idee nuove, abbasso scalini, spiano strade, segnalo le buche e guardo lontano.
Vorrei soffermarmi un attimo sul tuo passato: hai sicuramente contribuito a portare l’editoria italiana in un mondo nuovo, per quanto riguarda la comunicazione.
Sono arrivata in casa editrice nella primavera del 2012, in un momento in cui forse nessuna indipendente aveva una figura dedicata solo a web e social, figuriamoci poi a tempo pieno. All’epoca il mio compito era accompagnare i libri con più personalità, far emergere la cura artigianale del lavoro di redazione e dialogare con il pubblico in modo orizzontale. Avevo carta bianca, potevo inventarmi qualsiasi cosa e certe trovate sembravano quasi pionieristiche, tipo immortalare autori e autrici nei momenti più disparati di un tour promozionale o festeggiare online il compleanno di una redattrice.
E poi cos’è successo?
Poi sono aumentati i libri da pubblicare ogni mese, sono spuntate sempre più piattaforme nuove e la comunicazione ha dovuto prendere una piega più da format, più ottimizzata, meno incentrata sul contenuto originale della casa editrice e più tesa verso la relazione con il mondo media e influencer, per sfruttare più passaparola possibile. Per me che vengo dalla parola scritta, dai blog, già imparare a fare le foto in un certo modo è stato un grande ribaltamento mentale; poi sono arrivati i video e quello è stato un altro cambiamento ancora.
Forse abbiamo perso un po’ il controllo di format e contenuti, in tutti questi anni?
Diciamo che adesso c’è molto più rumore di prima e farsi sentire è diventato più difficile. Si cerca la scorciatoia del trend da cavalcare, del tema caldo, della polemica da coprire, e si mette un po’ da parte tutto il resto, la propria voce, quello che sarebbe davvero interessante raccontare e invece si dà per scontato.
Pensi che oggi ci sia più consapevolezza, rispetto alle professioni che hanno a che fare col digitale? Che si possa addirittura parlare di qualità della vita in questo settore?
Nei miei anni da social media manager non conoscevo sabati e domeniche, vere e proprie ferie o giorni di malattia: tutto era in funzione del post da far uscire o del libro da lanciare. Gestivo tutto da sola e non serviva che qualcuno mi imponesse questo stile di vita, ero io a trovarlo normale, automatico, devoto, professionale. Sono arrivata quasi trentenne, sono uscita quasi quarantenne: nel frattempo è cambiato tutto e la pandemia ha forse accelerato tanti ragionamenti. Per fortuna si inizia ad avere più consapevolezza, perché questo settore ti abbaglia e può consumarti come un fiammifero, se non metti dei paletti.
E questi paletti stiamo iniziando a metterli?
Sì, adesso si parla di più di salute mentale anche perché forse piano piano si sta erodendo l’idea di un certo tipo di lavoro creativo scintillante come uno status symbol, si inizia a capire che non siamo i nostri biglietti da visita, anche se il capitalismo prova a dimostrarci ogni giorno il contrario. Più se ne parla, meglio è. Quello della cura del proprio benessere mentale è un argomento che tratto sempre in tutti i corsi di comunicazione che tengo, soprattutto nei master di editoria.
A questo punto vorrei chiederti chi è il tuo committente tipo, per capire se anche dall’altra parte c’è più consapevolezza rispetto a ciò che fai.
Posso dividere il mio mondo lavorativo in questi gruppi: piccole aziende o freelance che vogliono raccontarsi meglio, persone con un progetto di scrittura online nel cassetto, enti e istituzioni, soprattutto culturali, che vogliono fare formazione sullo storytelling. Sono tutte realtà diverse che hanno tratti in comune: si sentono travolte dalle piattaforme, credono di non poter trovare un proprio spazio, hanno l’ansia del piano editoriale e poco tempo per dedicarsi ai contenuti. Chi arriva da me sa quanto sia importante comunicare online: ecco, forse finalmente questo punto non dobbiamo ribadirlo più, mi sembra un terreno comune. Secondo me il prossimo passo sarà far capire ancora meglio che niente è facile e immediato o che si possa migliorare per magia, senza provare e riprovare, perché noto ancora tanta distorsione nella percezione dei contenuti che scrolliamo ogni giorno.
Cosa intendi per distorsione?
Troppo spesso si sottovaluta tutto il lavoro che c’è dietro un post, una grafica, un video. Da utente (ma a volte anche da azienda) sembra tutto immediato, ti dici Dai, metto insieme due o tre magici trucchi del guru del momento e svolto anche io, divento virale. Non è così. Per scrivere bene e in generale raccontare qualcosa con una foto, un video, un’illustrazione, serve allenamento, tanto. Le strade sono due: o decidi di metterti alla prova (e di darti quindi anche un tempo per imparare e migliorare) o ti affidi a chi con i contenuti ci lavora. Non è solo un discorso di tecnica, perché prima ancora del come voglio raccontare, c’è il cosa, ci sono le idee. Anche quelle vanno allenate, insieme a uno sguardo attento, capace di cogliere un guizzo interessante, una scintilla anche minuscola, e trasformarla in una storia.
Ecco, io però ho l’impressione che in generale prevalga il come, soprattutto sui social, sul cosa.
Oh sì, è così. Si fa di tutto per spiccare in una stanza molto affollata, ma per dire cosa? Quel cosa è la mia battaglia, quello che mi interessa di più del lavoro che faccio adesso.
Ci stancheremo mai di stare in queste stanze, in questi ambienti così affollati?
Se parliamo di ambienti, c’è già una tendenza a muoversi verso spazi meno pubblici e più raccolti, come le chat, i canali, i gruppi, le community tematiche. Ormai molte delle conversazioni avvengono più nei messaggi privati che sotto un post di Instagram, giusto per fare un esempio. Vedo intorno a me realtà che subiscono le piattaforme e che farebbero volentieri altro, ma poi tornano lì per timore di diventare invisibili, essere dimenticate. E se ci riprendessimo la libertà di sperimentare?
A proposito di sperimentazioni. Qual è il tuo rapporto con l’innovazione tecnologica? Anche qui c’è un bel po’ di stress da affrontare, se non vuoi restare indietro.
Quando lavoravo come social media manager sentivo l’urgenza di sapere tutto, provare tutto all’istante, perché dovevamo stare sempre sul pezzo, correre e arrivare prima delle altre persone, anche solo per poter dire Guarda quanto siamo avanti. Ora è diverso. Mi do tempo di studiare, assorbire e sperimentare le innovazioni, anche perché vedo sempre tutto come un’opportunità, mai come una catastrofe che ci distruggerà la vita. Sono passata da uno stato di allerta permanente a un passo più lento. Va molto meglio così.
Chiudiamo come abbiamo aperto, parlando di newsletter. Quanto tempo dedichi a Posta creativa, che parte ha nella tua comunicazione professionale?
Posta creativa è il pezzo più importante della mia comunicazione e in generale del mio stare online. Lì mi sento davvero libera di esplorare temi che mi interessano, dare un assaggio del mio approccio e farmi conoscere come professionista in una modalità che sento mia, in cui numero dopo numero sento sempre di più la mia voce. Soprattutto, lì mi diverto. Ci lavoro con un quaderno dove appunto il calendario delle uscite settimanali e gli spunti da trattare e con file dedicati su Notion e Google Keep, per raccogliere tutto il materiale in giro o idee volanti. Cerco di chiudere il numero entro il giovedì-venerdì, poi lo rileggo altre mille volte, fino a un minuto prima di inviare, la domenica mattina. Io penso sempre alla newsletter, anche mentre non la sto scrivendo: quello che mi colpisce, quello a cui tengo, quello che mi ispira, immagino sempre di raccontarlo lì.
Bonus: quattro newsletter da seguire (più una)
Visto che ne abbiamo parlato con Valentina, ne approfitto per consigliare quattro newsletter (più una) che leggo con estremo piacere.
- . L’ho consigliata ovunque, qui non l’avevo ancora fatto. È semplicemente la newsletter più divertente che vi capiterà di leggere in giro. Esce ogni due venerdì (tranne quando è in pausa) e non posso più farne a meno.
- , di Stefano Besi, “colleziona tutti quei punti d’incontro tra i videogiochi e le forme d’arte più riconosciute e consolidate come la pittura, la letteratura, la scultura, la musica, l’architettura, il teatro, la poesia, la fotografia”. A me dispiace solo che non sia più settimanale, ma sto provando a farmene una ragione.
- , che offre ottimi consigli su come scrivere bene a livello professionale (per il digitale, ma non solo). Il modo in cui Letizia tratta la scrittura a me piace un sacco.
- è una newsletter di Lorenzo Fantoni “sull’internet che era”. Al momento è ferma: questo è un appello pubblico perché Lorenzo la riprenda, prima o poi. Nel frattempo potete leggere le puntate vecchie, oppure seguire Lorenzo su Heavy Meta.
Nella prossima puntata
Torniamo a parlare di intelligenza artificiale: di recente ho seguito un videocorso con Marco Monty Montemagno (!) e devo per forza raccontare com’è andata. Ci leggiamo il 23 marzo.
Grazie ☺️
Un’intervista davvero preziosa, grazie!