In questa puntata di Sobrietà parliamo di comunicazione interna, riprendendo alcuni temi toccati nell’intervista con Valentina Aversano (trovate il link alla fine). Buona lettura.
Come collaboratore esterno, sono il tipo che entra ed esce da gruppi di lavoro molto eterogenei passando da un progetto all’altro senza soluzione di continuità. Per molti aspetti questa condizione costituisce un punto d’osservazione privilegiato: mi permette di vedere dal di fuori cattive abitudini, gestioni incerte e vere e proprie menomazioni nella comunicazione interna.
Nei gruppi di lavoro che ho frequentato nel corso della mia esperienza c’è sempre stato almeno un momento di singolarità in cui era chiaro a tutti che... non ce l’avremmo fatta, semplicemente. Col passare degli anni e il moltiplicarsi degli strumenti, le cose sono anche peggiorate.
Scadenze e impegni si sovrappongono, le comunicazioni vanno fuori controllo, fioccano gli equivoci, nessuno è più in grado di decidere. È tutto imminente, pronto a decadere in una grande confusione.
Senza contare che a fine giornata o alla fine di un ciclo di lavoro si è pieni di una mole di informazioni che non si è più in grado di processare. Io stesso a volte ho la sensazione che il mio lavoro consista nel trattenere nella mia mente una serie infinita di informazioni contro la mia volontà. A volte ho il terrore di guardare cosa sta accadendo sul display del mio telefono.
Certo, la maggior parte delle volte le cose si sistemano, l’equilibrio perduto si ritrova e si va avanti; ma alla fine si è stressati, esauriti, non sempre convinti del risultato finale. Poi, dopo un momento di pausa, il ciclo di lavoro riprende con la stessa intensità di prima. Alla lunga il burn out1 diventa la regola, il metodo principe per gestire il flusso e i processi di lavoro.
Gli strumenti del demonio digitale
Col tempo ho iniziato a pensare che il mio lavoro di comunicazione dovrebbe rivolgersi maggiormente verso l’interno, prima ancora che verso l’esterno. Come comunichiamo all’interno dei nostri gruppi di lavoro? Come utilizziamo gli strumenti che in teoria dovrebbero facilitarci la vita, e invece finiscono col complicarcela?
È evidente che gli strumenti digitali hanno avuto un impatto positivo su quello che facciamo, ma allo stesso tempo hanno accelerato drammaticamente una serie di operazioni fino a raggiungere un ritmo che conserva ben poco di umano – per questo, prima, ho utilizzato il termine singolarità.
Il problema è che continuiamo a lavorare come prima, solo con strumenti più veloci e più intensi. Se l’utilizzo della tecnologia ha come fine quello di essere più produttivi e non quello di rendere più efficiente e sostenibile il nostro lavoro, alla lunga avremo sempre la sensazione di non riuscire a venirne a capo.
Non solo, il digitale ha visto moltiplicare gli strumenti a nostra disposizione: fogli di lavoro, documenti, gestionali, videochiamate, messaggistica privata di ogni tipo, da gestire in tempo pressoché reale.
Per fare un parallelo musicale, è come se fino a vent’anni fa fosse sufficiente saper suonare un solo strumento per far parte di una band, mentre oggi ci viene richiesto di conoscerne quattro o cinque, come minimo – peraltro in continuo aggiornamento: pensate a una chitarra o a una batteria che cambiano radicalmente, suonando in modo completamente diverso ogni tre o quattro anni.
Sono questi strumenti a produrre la mole di dati e informazioni che finisce sempre col sopraffarci. Abbiamo imparato a nostre spese che l’aria non pesa meno della carta. Inviare il link a una cartella Drive a un collega ha lo stesso peso mentale che poteva avere lasciare un faldone di documenti sulla sua scrivania giusto qualche minuto prima della fine del suo turno.
Il lavoro come conversazione continua
È inutile fare l’elenco delle attività che oggi riusciamo a svolgere con estrema semplicità e scioltezza e che venti o trent’anni fa avrebbero richiesto diversi giorni per essere portate a termine. Ma questo ha avuto un costo: lavoriamo a qualsiasi ora del giorno, senza alcuna rete di protezione mentale.
L’equivoco è pensare che velocità e reperibilità maggiori garantiscano risultati migliori. Non è così. Il nostro lavoro è diventato una conversazione2 intensa e continua con colleghi e collaboratori proprio come quella che gli strumenti digitali ci permettono di intraprendere col nostro pubblico.
In questa prospettiva, gli altri diventano funzioni, semplici propaggini degli strumenti che utilizziamo – e dunque altri strumenti a nostra disposizione –, in una dimensione alienante per noi e spersonalizzante per loro.
È chiaro che una persona ridotta a strumento, cioè una persona stressata o addirittura usurata da questa conversazione continua, non produrrà cose buone. Sarà puntuale, ma distratta. Avrà sicuramente la possibilità di farsi trovare pronta e veloce nella risposta, ma senza alcunché di significativo da proporre.
Un’organizzazione interna disfunzionale danneggia ovviamente anche chi riceve le nostre comunicazioni, peggiorando la qualità della conversazione col nostro pubblico. Se comunicare è organizzare e ordinare una serie di informazioni e solo in seguito capire come tradurle per i destinatari, questo è un lavoro che va fatto anche internamente, con molta attenzione, prima di darsi agli altri.
In altri termini: se non è sostenibile e se non produce qualità per noi, perché dovrebbe essere rilevante per gli altri?
Emergenze che non lo erano
Come in tutte le cose, gli strumenti sono solo strumenti. In teoria sta a noi capire come utilizzarli al meglio. Dico in teoria, perché ho la sensazione che gli strumenti che adoperiamo da qualche tempo a questa parte siano progettati per essere utilizzati da macchine. Ma prendiamo per buona l’idea che tutto sia sempre nelle nostre mani e nelle nostre menti di esseri umani.
Se così è, allora dobbiamo ricordarci che lavoriamo ancora, non si sa quanto a lungo, con altre persone. Che ogni mail inviata e ogni messaggio inoltrato avranno un destinatario che come noi sta lottando contro il tempo per portare a termine il suo lavoro e dedicare il tempo che gli resta ad altro – molto spesso, non dimentichiamocelo, la possibilità di staccare e di tornare alla sua vita privata.
Ogni volta che creiamo un file, una cartella o qualsiasi altro contenuto digitale, proviamo a renderlo quanto più chiaro possibile, senza lasciare agli altri l’incombenza di decodificare e tradurre ciò che per rispettare una scadenza abbiamo lasciato incompiuto, benché all’apparenza pronto e puntuale.
Facciamo in modo che le nostre urgenze non diventino emergenze per gli altri, ricordando sempre che esistono orari di lavoro e giornate in cui si dovrebbe riposare. Senza dimenticare che un messaggio inviato alle due di notte ipotizzando che verrà letto al mattino, in orario di lavoro, potrebbe comunque essere visualizzato in tempo reale e recare ulteriore stress a chi lo riceve.
Senza dimenticare, soprattutto, che ciò che all’improvviso preme come un’emergenza molto spesso è semplicemente il frutto di una serie di informazioni che si potevano processare e organizzare meglio, ma soprattutto con largo anticipo.
In estrema sintesi, dovremmo sempre ricordarci che non siamo responsabili solo di ciò che produciamo, ma soprattutto delle persone che ci aiutano a portare a termine il nostro lavoro.
Mi sembrano queste alcune piccole idee utili a mantenere un equilibrio, per quanto precario, nell’utilizzo degli strumenti di lavoro, soprattutto in organizzazioni di medie e piccole dimensioni. Idee se vogliamo anche un po’ banali, tanto che mi fa strano scriverle: ma davvero è diventato molto difficile preservare una chiamiamola tonicità psichica e mentale quando si lavora con gli altri.
Ecco, se da più parti e in più settori si parla maggiormente e con maggiore apertura di salute mentale, perché non dovremmo farlo anche noi nel nostro lavoro, nel nostro campo – qualsiasi esso sia?
Abbiamo interiorizzato così tanto l’idea di produttività che non abbiamo più idea di cosa sia, se non una competizione neppure con gli altri ma con noi stessi; non sappiamo più proteggerci dalle sue insidie, immaginarci al di fuori di essa e dell’incubo delle sue coercizioni. Questo non può che avere effetti devastanti su di noi e sulle persone con cui lavoriamo, con l’aggravante di aver scisso la stessa produttività dalla qualità – di quello che produciamo, e di come viviamo.
Nonostante i termini anglosassoni suonino sempre un po’ eufemistici nella nostra lingua, “burn out” rende bene, forse anche in maniera più forte dell’italiano, l’idea di “esaurimento”, dato che in senso letterale indica lo spegnersi, il bruciarsi di una lampadina.
Di solito la parola “conversazione” ha un’accezione positiva, e lo ha anche in ambito digitale. Ma proprio negli ambienti digitali l’idea di conversare continuamente con qualcuno (tra utenti come tra utenti e aziende o soggetti pubblici) ha iniziato ad assumere una certa problematicità: il dialogo sulle piattaforme social non solo alla lunga è estenuante, ma molto spesso utilitaristico, finalizzato a qualcosa che non è la semplice conoscenza dell’altro.