La prima luce delle cose. Intervista a Piero Percoco
Una chiacchierata col fotografo e artista visivo pugliese per inaugurare la seconda stagione di Sobrietà
Rieccoci. Sobrietà riparte con un’intervista e una novità: in questa seconda stagione le puntate avranno uscita settimanale (sempre al sabato), alternando cose un po’ diverse. Andremo avanti fino a dicembre.
Oltre ai miei testi di approfondimento ci sarà anche una rubrica di link e di tanto in tanto, appunto, interviste a persone che secondo me hanno cose interessanti da dire. Iniziamo con Piero Percoco, fotografo e artista visivo pugliese che stimo tantissimo (su Instagram come The Rainbow is Underestimated).
Ultima cosa: quest’intervista è stata realizzata via messaggi vocali all’inizio di settembre 2024. Ho inviato il primo vocale a Piero il 2 settembre mentre ero al mare, l’ultimo mi è stato inviato da Piero il 5 settembre da un bosco. Buona lettura.
Ciao Piero. Come stai, come te la passi in quest’ultimo periodo?
Sto un po’ per gli affari miei. Ultimamente studio e rifletto molto. Mi faccio molte domande. E quindi mi allontano da altre cose. Comunque sto bene.
Altre cose, tipo?
Instagram, ad esempio. Alla lunga non mi piace l’effetto che fa sulle persone, i trend che crea, in cui vuoi o non vuoi vieni infilato. Non mi sto mettendo sul piedistallo, questa cosa riguarda anche me. Solo che da un po’ cerco di essere più distaccato, più attento a quello che faccio, a come interagisco con le persone. Con alcuni proprio non riesco, ma ogni tanto capita di avere una bella conversazione, un bello scambio.
Tu a Instagram devi tanto.
Sì, e infatti ti dico che va usato, soprattutto se si vuole emergere, perché lo bazzicano tanti editor e tante persone che lavorano nelle riviste. Però bisogna fregarsene delle mode, dell’algoritmo ballerino, di quello che dicono gli altri. Bisogna fare le proprie foto e pubblicarle. Anche se prendi zero like e nessuno ti segue, devi insistere. Le mode passano e non sai più cosa raccontare, se non hai ancora trovato te stesso.
Tu in che direzione stai andando?
Mi interessano la vita nell’universo, il cosmo, il mare. I posti da cui veniamo. La natura. È un modo per relativizzare tanti problemi, tante cazzate. Un modo per mettersi a nudo e ripartire.
Intendi anche come artista?
Come artista cerco di pensare con la mia testa. L’ho sempre fatto e continuo a farlo. La mia è una riflessione più ampia, va oltre la fotografia. Tra quattro anni compio quarant’anni, se va bene arrivo a cento: è una banalità, ma sessant’anni non sono niente nella storia dell’universo. Quindi cerco di dare priorità alle cose essenziali. L’altro giorno ero su una panchina, mi guardavo intorno. Mi sono chiesto: cosa ci sarà tra diecimila anni al posto di questa panchina? Cosa ci sarà al posto della scuola, dei giardinetti…?
Che risposta ti sei dato?
Una distesa di massi giganteschi. Non ci sarà nient’altro. L’universo funziona così da sempre. Eppure continuiamo a fare quello che fanno gli altri, a inseguirli, a fare tutti le stesse cose. Che senso ha affannarsi continuamente? La macchina, la casa… L’essere umano è l’animale più stupido e pericoloso che esista.
Tu per tanti anni hai raccontato la Puglia (e per estensione tutto il sud) in un modo abbastanza insolito, anche se oggi può sembrare un po’ sputtanato.
Per me non lo era, all’epoca. Ho iniziato nel 2013, non c’era niente ancora. Semplicemente fotografavo la mia quotidianità, la mia vita. Non potevo fare altro. Non è che mi mettevo là a pensare di fare la foto fica. Nelle mie foto ci sono i miei nonni, la mia famiglia, le cose che vedo e che vivo a Sannicandro o a Bari. Le persone che ho fotografato non sono freak o fenomeni da baraccone, non c’è niente di ironico nelle mie foto. Ripeto, semplicemente era la mia vita, non potevo raccontare altro che quello. Però col mio sguardo.
Perché non funziona più quel racconto, secondo te?
Perché appunto non c’è lo sguardo del singolo, ma il desiderio di omologarsi a un trend: la Puglia glamour, la finta autenticità da vendere ai turisti. Ma quel filone è finito. Se qualcuno continua a seguirlo vuol dire che non ha niente da raccontare, o semplicemente che lo fa per i follower, per i like, per il successo. Ultimamente ho detto no a un committente molto importante, avevano già tutto pronto: Monopoli e Polignano, nonne che fanno le orecchiette… Puoi immaginare. Ho detto no grazie, io non la faccio quella roba, quei cliché non mi interessano.
Tu come ci sei arrivato alla fotografia?
Quando ho finito le superiori – ci ho messo sette anni perché mi hanno bocciato due volte – era il 2008, c’era la crisi economica. Non avevo un lavoro, la mia famiglia era in difficoltà, non potevo viaggiare né fare altro. Sono partito dalla noia, probabilmente.
All’inizio eri “quello che fotografa col telefono”.
Sì, una cosa che generava curiosità ma che mi ha anche un po’ emarginato. Oggi mi chiedono ancora con cosa scatto, che macchina uso… Ma cosa ve ne frega? Si scatta col cervello, col cuore, non è importante lo strumento.
Come l’hai vissuto, quel periodo?
Bene e male. Sicuramente ho ricevuto tanta stima e sono arrivate tante opportunità, ma ci sono stati anche molti equivoci. Ad esempio sulle mie foto agli anziani. A un certo punto la gente mi taggava in ogni cazzo di foto di anziani al mare o per strada. Era tutto “The Rainbow is Underestimated”, ma le persone non capivano che non c’entravo niente con quello che facevano gli altri. Come ti dicevo, io ho fotografato quello che avevo davanti agli occhi ogni giorno, quello che il mio istinto mi portava a fotografare. I dettagli di casa mia, le processioni, le feste, le strade, i luna park…
In effetti una tua foto si riconosce subito. Dentro c’è sempre una storia, un destino che sembra compiersi in modo ineluttabile. Sembra quasi che la realtà si metta in posa, davanti al tuo sguardo.
Il mio sguardo, in particolare sulle cose che conosco, è quello di un alieno. Anche se racconto cose familiari, è come se le guardassi sempre da un’altra prospettiva, da un altro pianeta. Allo stesso tempo è uno sguardo molto legato alla mia infanzia. So che molti mi considerano un artista visivo, ci sta.
Hai mai pensato di spostarti, di andare via dalla Puglia?
Quando stavo a Cesura mi chiedevano di restare, ma io volevo tornare giù, mi sembrava un territorio ancora vergine da raccontare dal punto di vista fotografico. Non mi piaceva il modo in cui si scattava da queste parti, soprattutto a Bari: foto di amatori in bianco e nero con la firma sotto, foto da cartolina… Quindi sono tornato.
E però l’immaginario a cui ti sei dedicato e che hai contribuito a creare è un po’ consumato, dicevamo.
Sì, ma ripeto: io ho dato vita a un universo di immagini del tutto personale, non mi interessava fornire un immaginario per i turisti che ci vengono a fotografare come babbuini. L’ho capito col mio primo libro, Prism Interiors: quando Jason Fulford – un fotografo e editor americano che non sapeva niente di me o della Puglia – ha selezionato le sessanta foto che sarebbero finite nel libro e me le ha fatte vedere, ho pensato: “È la mia vita”.
E ora?
Da un po’ cerco di fare altro, di dare una sterzata al mio percorso e fare cose diverse. Bisogna evolversi. Chiedersi sempre: perché sto fotografando questa cosa? Che senso ha per me?
Che rapporto hai col video? Ricordo il tuo bellissimo This is the way, step inside.
Considera che il cinema è il mio primo riferimento, prima ancora della fotografia. Da qualche tempo con Jacopo Farina sto portando avanti South TV, che è un progetto cinematografico su alcuni incontri un po’ casuali fatti in Puglia.
Quindi c’è ancora qualcosa da raccontare in Puglia, oltre i cliché e i trend.
Assolutamente sì. Ci sono angoli e storie invisibili dappertutto. Bisogna disconnettersi da quello che sappiamo, vediamo e sentiamo continuamente e stare concentrati (una cosa che ci riesce sempre più difficile)… Bisogna stabilire un rapporto meditativo e spirituale coi luoghi, in particolare. Io e il mio amico disegnatore Emilio Mossa l’abbiamo fatto con la foresta di Mercadante, nel barese, e ne è venuta fuori la mostra Paesaggio Ignoto per il Tower Art Museum di Matera.
Una volta trovato un posto ancora sconosciuto, dovremmo parlarne in giro?
Se parliamo di social, forse è meglio di no. Anzi, sicuramente no. Tante volte mi scrivono in direct per sapere dov’è un posto che ho fotografato... Allora non rispondo, oppure faccio il vago. Sai, la gente è disposta a stuprare i posti solo per andare a fare una storia Instagram.
A proposito di social. Non pensi che siano un po’ un ostacolo, se parliamo di evoluzione personale? Soprattutto se hai successo, rischi di restarci ingabbiato, di rifare sempre le stesse cose.
Sì, probabilmente perché vedi sempre le stesse cose. Ma io parto sempre dal presupposto che tutto è già stato fatto e detto, a prescindere dai social. La differenza la fa lo sguardo, il modo in cui racconti le cose. Io ho il mio, e ognuno dovrebbe cercare il proprio. Le gabbie ci sono se te le crei. Mi fanno incazzare tanti ragazzi che mi vengono dietro, mi mitizzano… Ai workshop mi chiedevano: “Come hai fatto ad avere successo?”, ma che domanda è? Bisogna dare spazio a quello che hai dentro, al tuo sguardo, lo devi trovare e tirare fuori, cercare la prima luce delle cose. È l’unica cosa che conta.
Per approfondire
Un mio articolo su Piero Percoco apparso su Minima&Moralia nel 2018.
Il video This is the way, step inside.
La mostra Paesaggio Ignoto al TAM di Matera.
La prima è andata. Ci leggiamo la settimana prossima per vedere un po’ come si comunicano le città quando si mettono in testa di trasformarsi in destinazioni turistiche. Ciao!