La rivincita della scrittura
Negli ambienti digitali si scrive tantissimo. Ma come scriviamo? Per comunicare cosa?
Quando il digitale è esploso, imponendosi in particolare con i social media nelle vite di ciascuno di noi, è accaduta una cosa abbastanza imprevista: siamo tornati a confrontarci con la scrittura, sia per praticarla in prima persona che per leggere gli altri.
Parlo di un ritorno perché fino a qualche tempo fa la maggior parte delle persone aveva a che fare con la scrittura tra i banchi di scuola per poi dimenticarsene per il resto della propria esistenza – se si eccettuano questioni professionali, pratiche burocratiche, telegrammi, lettere d’amore o da parte di avvocati, richieste di chiarimenti e riscossione di tributi minori.
È chiaro che la scrittura di cui parlo è una scrittura funzionale, non necessariamente creativa o espressiva. È una scrittura che serve a stabilire connessioni con gli altri negli ambienti digitali. Viene praticata in egual modo, se non in misura maggiore, anche dalle macchine. A dirla tutta, quella prodotta dagli umani è spesso indistinguibile da quella praticata dalle macchine.
Articoli, post, commenti, messaggi, recensioni, didascalie: la scrittura cui siamo esposti quotidianamente è effimera e impermanente come una Storia Instagram, si perde giusto qualche ora dopo che si è manifestata. Espletata la sua funzione, non serve più a niente o quasi. Eppure è lì, in una misura mai vista nella storia dell’umanità: siamo probabilmente gli umani che più hanno fatto ricorso alla scrittura per comunicare tra loro.
Data la sua consistenza e capacità di determinare le nostre vite, la qualità di questa scrittura dovrebbe essere molto importante. Non è così. Parliamo tra l’altro di una scrittura molto prossima all’oralità, o addirittura al pensiero (in futuro, alla telepatia): quando commentiamo un articolo, lo facciamo come se stessimo pensando a voce alta oppure chiacchierando con qualcuno, con espressioni che vengono dal parlato quotidiano.
Di qui gli equivoci, le ambiguità di fondo e anche i litigi. Va detto però che la sgrammaticatura è una questione molto relativa.
A me pare infatti che anche il commento più sgangherato abbia forza a sufficienza per comunicare le intenzioni di chi lo ha scritto. Il messaggio è sempre chiaro, al di là della forma, e raramente tradisce la personalità di chi sta comunicando. Si può ridere dei refusi altrui, ed è bene farlo perché ridere degli altri è scorretto ma allunga la vita – tuttavia l’informazione, nella sua purezza, non risente mai di un accento sbagliato o di una virgola fuori posto.
Il messaggio arriva comunque, a meno che il rumore di fondo non pregiudichi completamente la possibilità di ricevere l’informazione. Ma questo vale per qualsiasi tipo scambio, a prescindere da quale strumento si utilizza.
Semmai, errori e refusi ci ricordano appunto che giusto una minoranza tra noi era pronta a tornare a utilizzare la scrittura seguendo le sue corrette regole grammaticali e ortografiche. Potrei scandalizzarmi e non poco per aver scoperto, prima con gli SMS e poi grazie alla messaggistica privata, quanta gente – anche di una certa cultura, come si suol dire – sia incapace di scrivere in italiano corretto anche un semplice messaggio d’auguri, ma l’approccio dei cosiddetti grammar nazi manca completamente il bersaglio.
Per me il fatto eccezionale è questo: nonostante il profluvio di immagini, video, gif, meme, messaggi vocali, podcast, dirette e tutto il resto, la scrittura domina ancora la scena, anche se non lo fa nella forma in cui forse avremmo pensato. Non lo fa cioè come forma d’arte o addirittura come scrittura letteraria: la quale è, per la verità, un linguaggio a parte che nulla c’entra con questo discorso (almeno quanto il codice, che sempre scrittura è, che crea e sorregge le infrastrutture digitali in cui ci muoviamo).
Gli ultimi romantici
Forse è il caso di aggiungere che ogni volta che guardiamo con piglio romantico alla scrittura, accostandola in automatico a quella creativa, le facciamo un torto. Forse è proprio quando attribuiamo alla scrittura delle qualità intrinseche che non ha (veicolo di conoscenza, cultura, bellezza, eccetera), che finiamo con l’esserne delusi.
Si può scrivere bene ed essere profondamente stupidi, cattivi e perfino ignoranti. Anzi, spesso è proprio la buona scrittura – nella sua forma più performativa e perversa – la clava che utilizziamo per litigare negli ambienti digitali, per fare del male agli altri, per annichilire sia gli altri che il loro punto di vista nel corso di una conversazione.
L’equivoco per cui scrivere significhi esprimere sempre qualcosa di buono o di rilevante sul piano espressivo, linguistico e culturale è il motivo per cui tendiamo a convincerci che le persone oggi siano meno alfabetizzate che in passato, specie quando leggiamo strafalcioni grammaticali e pensieri che ai nostri occhi sembrano non troppo lineari.
Non è detto che sia così: per la maggior parte delle persone, la scrittura è uno strumento come tanti tra quelli a disposizione negli ambienti digitali. È solo che rispetto a vent’anni fa sono aumentati esponenzialmente (e al contempo sono cambiati) i contesti in cui ci si può esprimere più o meno liberamente scrivendo. Si sono quindi moltiplicate le occasioni in cui la scrittura può essere deformata e plasmata secondo derive culturali totalmente impreviste, così come quelle in cui possiamo osservare gli altri all’opera con la scrittura, in passato un privilegio riservato a poche centinaia di migliaia di persone.
Chi scrive spingendosi oltre il grado zero della comunicazione per iscritto – ossia la semplice necessità di connessione e comunicazione con gli altri – sta sempre sperimentando su un terreno inesplorato. Andrebbe in qualche modo rispettato per questo.
Codificare e normare
In quanto strumento di comunicazione, la scrittura utilizzata negli ambienti digitali può essere codificata e normata come qualsiasi altra forma di linguaggio. È interessante notare come, da un punto di vista prettamente tecnico, disciplinare la scrittura in rete significhi spesso accordarla alla ricezione da parte delle macchine, più che degli esseri umani.
Penso in particolare agli articoli e ai post scritti con il manuale della Search Engine Optimization sulla scrivania negli ultimi vent’anni: il risultato è stato quello di ottenere testi piuttosto omologati e banali, scritti come fossero già prodotti dalle macchine (col paradosso che adesso queste possono scriverli in piena autonomia grazie all’evoluzione delle intelligenze artificiali).
Allo stesso modo, la scrittura che passa dal digitale può subire degli scossoni con l’introduzione di nuove norme, che vengono poi accettate o rigettate da chi scrive.
Se pensiamo allo schwa, ad esempio, sono interessanti tanto i motivi che hanno portato alla sua introduzione quanto quelli relativi al suo mancato assorbimento da parte di un’ampia comunità di scriventi. Da un lato la possibilità di rappresentare gruppi e soggetti che prima erano esclusə dal discorso pubblico, da un altro l’idea che cambiare la lingua scritta non significhi necessariamente riuscire a modificare e a migliorare la realtà. È un conflitto tanto linguistico che politico (evviva!), che testimonia quanto la lingua praticata negli ambienti digitali sia viva nonostante il suo destino sia fondamentalmente quello di nutrire le macchine.
Il che mi permette di chiudere questa puntata lanciandomi in qualche ipotesi, più o meno strampalata, sul futuro della scrittura negli ambienti digitali. Seguitemi.
Un nuovo artigianato
Negli ultimi vent’anni anni, la possibilità di creare grandi e piccoli newtork/comunità di utenti e di ricevere feedback in tempo reale rispetto alla pubblicazione di contenuti ha fatto sì che si parlasse di comunicazione conversazionale. Questo tipo di comunicazione (e di marketing) prende vita anche e soprattutto per mezzo della scrittura non creativa di cui abbiamo parlato fin qui.
Consumatori che parlano direttamente con i brand che ne ascoltano preferenze e necessità, cittadini in dialogo con amministrazioni pubbliche e ovviamente utenti che si confrontano tra loro sui temi più svariati per fare massa critica rispetto agli stessi brand e alle stesse istituzioni: quello che un tempo avremmo definito filo diretto con soggetti commerciali, politici o istituzionali è il risultato della disintermediazione avvenuta praticamente in tutti i settori della vita umana grazie all’arrivo delle tecnologie e dei dispositivi digitali.
Così la politica ha pensato di poter fare a meno di partiti e militanti, il giornalismo delle redazioni e dei giornalisti, la critica di settore dei critici di settore, e così via. Sul piano politico è andata a finire che la politica ha ricevuto una delega in bianco da parte dei cittadini che a lungo andare l’ha delegittimata, mentre le aziende si sono viste costrette a investire un sacco di soldi in customer satisfaction e in assistenza post vendita, dal momento che ciascuno di noi può demolire un prodotto con una semplice recensione negativa lasciata in rete.
Nel frattempo, però, le piattaforme che hanno reso possibile quella disintermediazione iniziale sono diventate i nuovi intermediari da cui transitano ormai tutte le nostre attività online, incluse appunto le nostre conversazioni.
Il punto è che, al di là del settore specifico in cui operano, queste nuove piattaforme/nuovi intermediari sono prima di tutto piattaforme e intermediari tecnologici. Le nostre conversazioni sono quindi sempre più filtrate, interpretate e gestite da macchine, che in qualche modo finiscono per influenzare anche le modalità di conversazione tra umani. Lo accennavo prima: comunichiamo sempre più come macchine, se non nei modi quantomeno nei tempi di risposta pressoché immediati rispetto agli stimoli ricevuti nel corso dei nostri scambi.
Tuttavia, non credo che questa fase durerà ancora a lungo. Credo anzi che metteremo presto da parte l’idea che tutti possano davvero parlare con tutti e che le conversazioni tra umani possano essere tutte indistintamente migliorate grazie al filtro del digitale (era l’idea iniziale di Zuckerberg con Facebook).
In altri termini, questi anni di conversazioni umane e post umane negli ambienti digitali hanno semplicemente preparato il campo a quello che verrà dopo, ovvero la conversazione continua, ficcante e proficua tra umani e macchine – il cuore vero del digitale del futuro.
Chiaramente non mi lancerò in previsioni che oggi possono apparire ingenuamente apocalittiche da un lato e cretinamente entusiastiche da un altro. Sappiamo però che gli assistenti virtuali stanno facendo enormi passi in avanti di mese in mese e che probabilmente ciascuno di noi si troverà a interagire molto spesso, nell’arco di una giornata, con diverse macchine per svolgere un gran numero di attività, dalle più complesse alle più banali.
Come comunicheremo con queste macchine? Per lo più a voce, credo, ma anche per iscritto. Sarà fondamentale l’abilità di scrivere correttamente dei prompt – la serie di comandi testuali utili a dare indicazioni alle macchine affinché svolgano un determinato compito – che abbiano senso, profondità e visione.
Per la maggior parte di noi questo significherà generare per lo più nuove mappe di informazioni e conversazioni di una certa utilità, un po’ come con i motori di ricerca. Ma per qualcun altro il prompting diventerà un’arte vera e propria, un’arte molto simile all’artigianato, che modificherà a sua volta l’immagine degli artigiani che abbiamo avuto per secoli: l’artigiano non sarà più soltanto colui che modella la materia a partire da un’idea, ma si troverà a modellare quella stessa idea su un piano astratto attraverso la parola, per creare così foto, immagini, altro materiale testuale, software, video e forse interi film.
Potremmo trovarci a vivere un’epoca in cui i contenuti digitali saranno percepiti come un tempo i prodotti d’artigianato, prodotti nei quali, attraverso la sapienza della scrittura di un prompt particolarmente riuscito, sarà ancora possibile scorgere la mano e la mente umana dietro il prezioso lavoro della macchina. E in un ambiente pienamente integrato fisico/digitale in cui tutto è svolto e prodotto per lo più da macchine, il tocco umano potrebbe assumere un valore inestimabile.
In questo senso, anche la scrittura funzionale avrà qualcosa di creativo, volto all’espressione di sé stessi attraverso la mediazione della macchina. Sarà una fase nuova per questo antico strumento sempre frainteso, bistrattato, tradito e traditore al tempo stesso – almeno finché non verrà definitivamente soppiantato da semplici comandi vocali o, perché no, psichici e mentali. Tutto sommato, spero di non esserci.
Davvero interessante :)