
Capita spesso di discutere con altre persone di blocchi creativi, soprattutto rispetto alla scrittura. Non parlo qui di scrittura particolarmente artistica, ma di scrittura in generale. Quando succede, cerco di riportare tutto alla fonte: la necessità espressiva. Anche quando si lavora su committenza, lo sforzo da fare è risalire alla radice del testo, ai motivi per cui quel testo ha bisogno di venire alla luce. Non sempre è facile.
C’è poi da superare un equivoco, che mi sembra provenire da quell’aggettivo così abusato: creativo. La scrittura è sempre creativa, anche quando è funzionale al raggiungimento di un obiettivo più o meno immediato, o di natura commerciale. Aggiungere l’aggettivo “creativo” al blocco significa allontanare da noi l’oggetto della creazione, spostarlo in uno spazio in cui potenzialmente non ci appartiene più in quanto esseri umani. Creativo, in un mondo in cui mi pare che tutti siano creativi, significa che niente lo è.
Piccolo aneddoto personale: molti anni fa, quando ho iniziato a lavorare con la comunicazione e la scrittura, un amico regista mi presentò a un produttore in questo modo: “Anche lui è un creativo”. Aggiunsi subito: “Significa che sono disoccupato”. Avevo bisogno di smontare subito quella discussione: la parola “creativo” mi ha sempre messo a disagio. È banale dirlo, ma anche gli artigiani sono creativi. Anche i dipendenti pubblici alle prese con la redazione di un bando, anche le nutrie e i castori. Anche le piante.
Lo sforzo, quando si percepisce un blocco, che poi è una sensazione quasi fisica di radicale estraneità alla materia (la scrittura), dev’essere quello di riportare ciò che sta all’esterno da noi nuovamente all’interno, per rendere la scrittura qualcosa che agisce in continuità col resto della nostra vita. Ci sono diversi trucchi per riuscirci – parlo di trucchi perché si tratta davvero di prendere un po’ in giro il nostro cervello quando si ostina a remare contro.
Il primo trucco può essere quello di distrarsi completamente. Guidare, fare le pulizie, cucinare, lasciando il tempo al cervello per rilassarsi e relativizzare la questione della scrittura e dei suoi blocchi. La scrittura è una questione pratica, e lasciarla sullo sfondo mentre si svolgono altre attività pratiche non può che farle del bene.
Il secondo trucco è quello di prendere il libro di un autore o di un autrice che riteniamo possa tornarci utile (per prossimità di voce o stile, più che per temi o argomenti), aprirlo a caso e leggere una o due pagine finché la sua scrittura non rimette in moto la nostra. La scrittura nasce da altra scrittura, come la musica.
Il terzo trucco è più che altro un metodo di scrittura ed è anche il modo per affrontare la presunta crisi o il presunto blocco a viso aperto, senza timore e con molta umiltà. Affermare che la scrittura nasce da altra scrittura significa pure che si scrive quando si scrive (“si scrive scrivendo”, cito a memoria Susan Sontag). C’è poco da fare, uno può riflettere e teorizzare quanto vuole, ma il momento dell’esecuzione è ciò che conta davvero.
Dunque bisogna aprire il foglio di testo e darsi come obiettivo il raggiungimento di un numero di battute affrontabile (mille, millecinque o tremila, non ha importanza) senza avere nulla di particolare in mente. E scrivere, senza curarsi della qualità. È una sorta di riscaldamento, che anche in questo caso normalizza la pratica della scrittura e la rimette in moto. Magari nell’immediato non si scriverà nulla di particolarmente memorabile, ma dopo qualche ora – o il giorno successivo al massimo – le cose andranno meglio.
Si può anche provare a partire da un piccolo frammento di testo, darlo in pasto a un bot, vedere cosa ne viene fuori e poi proseguire da lì. Ma nella mia esperienza è una cosa che non funziona granché, perché restituisce l’impressione che la mia presenza sia superflua – mentre nel momento in cui c’è da superare un blocco ho necessità di essere completamente presente a me stesso, senza cercare scorciatoie rispetto al fatto che il problema è tutto mio, non della macchina.
Personalmente, c’è una cosa che soffro di più della pagina bianca, ed è la pagina completamente nera, il muro di testo. Quello mi fa stare male davvero, come mi fanno stare male i grafomani e chiunque abbia una certa facilità di scrittura. Per me la scrittura è attrito e frizione, prima di tutto. Da quell’attrito nascono sempre cose buone, perché umane. Se non c’è quell’attrito, quella difficoltà naturale nella risoluzione di problema, allora mi insospettisco.
Anche da lettore ho bisogno di trovare questo attrito, o quantomeno il suo fantasma, la sua eco – come l’impronta di una voce unica e inimitabile che ha percorso millenni di luce e suono per arrivare fino a me. Se non c’è, se intuisco che tutto è andato fin troppo liscio, allora quella scrittura non mi interessa.