La cosa più intelligente sull'Intelligenza Artificiale
L'ha detta Gianluca Diegoli in un video di qualche settimana fa. E nel frattempo ho seguito un corso sull'IA con Marco Montemagno...
La cosa più intelligente sentita fin qui sulle intelligenze artificiali l’ha detta un esperto di marketing, Gianluca Diegoli, autore tra le altre cose de
. Nel corso di una puntata di Videns, Diegoli ha risposto così a una domanda sul tema:«L’intelligenza artificiale erode il lavoro manuale delle attività intellettuali.»
Non si tratta di una frase buttata lì a casaccio per fare scena: Diegoli la pronuncia all’interno di un discorso più articolato e dal tono per nulla perentorio. Ma a me piace anche così, isolata, alla stregua di un aforisma, perché sottrae un bel po’ di rumore di fondo alla faccenda delle intelligenze artificiali, riducendola a ciò che dovrebbe essere davvero: una discussione sugli strumenti.
Allo stesso tempo, la frase dà la misura delle numerose implicazioni della questione e soprattutto della sua estensione, dato il riferimento alle attività intellettuali, solitamente poco toccate dall’innovazione tecnologica (o almeno è quello che ci siamo sempre raccontati).
Insomma, io l’ho interpretata così: da un lato, molti dei compiti atrocemente noiosi che toccano a chi lavora con le idee («il lavoro manuale delle attività intellettuali») possono essere svolti con disinvoltura dalle macchine (e va bene); da un altro, chi pensava di essere al riparo dai rischi dall’automazione perché svolge appunto lavori intellettuali, be’, non lo è affatto.
Intelligenze intellettuali
Ultimamente sto cercando di capirci di più, sulle IA. Utilizzo già Gemini e ChatGPT come assistenti, invero a volte un po’ stupidi, cui chiedo di rivedere alcuni testi, eliminare refusi, organizzare dei riassunti, magari anche per qualche traduzione non troppo complicata in altre lingue.
Niente di eccezionale, ma del resto non è sullo strumento in sé che nutro dubbi: è chiaro che evolverà in modo spropositato, e per certi versi non vedo l’ora che accada.
Non ho paura di essere sostituito nella stesura di testi, insomma, perché è ovvio che succederà per un certo tipo di testi che già oggi farei volentieri a meno di scrivere. Piuttosto mi domando se non corro qualche rischio rispetto alla parte più strategica del mio lavoro, se anche questa non è destinata a diventare semplicemente «lavoro manuale» per le IA.
Per essere più chiaro: le conversazioni che i miei committenti intrattengono con me per capire come muoversi rispetto a un certo progetto di comunicazione, potranno tenerle direttamente con le intelligenze artificiali? Se sì, con che livello di profondità e di fiducia?
Con questo spirito un mesetto fa ho deciso di seguire un videocorso gratuito di quattro lezioni con Marco Montemagno sull’argomento. Sì, proprio lui, Monty: prima o poi doveva capitare, di incrociare questo mio quasi omonimo, verso cui peraltro ho sempre nutrito una certa simpatia. I suoi video sono stati il mio guilty pleasure serale per molto tempo, in passato.
Due parole su Marco Montemagno
Di Montemagno mi piace innanzitutto che sia un asso del ping pong. Poi, l’idea che col tempo si sia costruito una lingua tutta sua, per certi versi tipicamente italiana, quasi vernacolare, ancor più nelle contaminazioni con l’inglese.
Una lingua unica e riconoscibile, costantemente accesa da una strana miscela di understatement ed eccitazione, che trasmette leggerezza e buonumore senza mai farti dubitare del fatto che il nostro sia una persona genuinamente curiosa (a prescindere dalle sue interviste con Carlo Rovelli e altri intellettuali).
Soprattutto, ho sempre avuto la sensazione che Monty sia ben consapevole di corrispondere al cliché del guru per molta gente (e un po’ ne gode), ma che sappia pure di doversi costantemente scrollare di dosso questa etichetta, se vuole essere preso sul serio dal resto del mondo che non lo considera affatto un genio.
In altre parole, Montemagno sa perfettamente che sono più numerose le persone che tendono a inserirlo nell’infinito elenco di imbonitori di cui è piena la rete, che quelle che sinceramente lo stimano.
Questo però è inevitabile su internet e vale per tutte e tutti noi, a prescindere dal numero di follower o di grano raccolto: quante pacche sulle spalle tra quelle che riceviamo quotidianamente sono false, di pura convenienza, e quanti sguardi invidiosi o di crudele disistima celano? Quanta gente ci vuol bene davvero, in fin dei conti, e quanta ci detesta solo perché è più facile pensare che siamo semplicemente sopravvalutati?
Tutte queste domande Montemagno dà l’impressione di porsele continuamente, il che a mio avviso è la spia di una grande intelligenza.
Parla con me
Ma torniamo a noi. Le quattro lezioni di Monty sull’IA si sono risolte in un lungo «Belìn, guarda che il treno dell’intelligenza artificiale non puoi proprio perdertelo, poi fai come vuoi», in vista della proposta d’acquisto del corso vero e proprio – quello a pagamento, ovviamente.
Qui e lì però ho percepito che Montemagno aveva qualcosa di contagioso, non so bene cosa: probabilmente il manifestarsi di quella genuina curiosità di cui parlavo prima, che di solito si accende nel punto in cui le espressioni facciali di Monty fanno il giro e da eccitate che sembrano, per un istante quasi impercettibile si fanno quasi di una disperata incredulità, coi muscoli del sorriso tirati all’inverosimile.
Voglio dire che al di là del fatto che sapevo benissimo che prima o dopo sarebbe arrivato il momento della vendita spudorata, non ho mai messo in dubbio il fatto che Montemagno avesse davvero sbattuto il muso per un anno intero su varie intelligenze artificiali per venire a portarci la sua testimonianza.
E così, qualcosa di molto interessante l’ho trovata nel modo con cui Monty ha raccontato di rapportarsi con l’IA, soprattutto con gli assistenti virtuali: intendo proprio l’idea di rivolgersi a un assistente con l’intenzione di conversare con lui (o con lei). Lo sforzo di cercare uno scambio, più che stare lì a impartire degli ordini che aspettiamo di vedere eseguiti male per poi concludere: «Ah ecco, vedi? Non funziona e non funzionerà mai».
In effetti, come suggerisce Montemagno (per carità, non è l’unico), se cerchiamo di dialogare veramente con un assistente virtuale, prima o poi qualcosa di interessante arriva.
Come lacrime nella pioggia
Qualche giorno dopo aver finito il corso con Monty ho intrapreso una conversazione con ChatGPT per un articolo che dovevo preparare da tempo e che faticavo a buttare giù. Si trattava di un pezzo di approfondimento sugli ultimi due capitoli del videogioco The Legend of Zelda (Breath of the Wild e Tears of the Kingdom) per Nintendo Switch. Ho messo subito in chiaro le cose, specificando con l’assistente che l’articolo – essendo d’approfondimento e non di mera informazione – l’avrei scritto io da capo a piedi, non lui (o lei).
Con ChatGPT cercavo più che altro un confronto su come sviluppare il pezzo, in particolare per capire come trattare il tema della dipendenza da videogiochi ma soprattutto l’idea che i videogiochi possano risultare molto più interessanti della realtà e che questo sia il motivo per cui andrebbero assolutamente giocati.
Ho conversato con ChatGPT fino al momento, del tutto inaspettato, in cui ho detto che non immaginavo si potesse trattare una tesi così controversa con lui (o con lei); e anche su questo abbiamo discusso, in modo molto affabile, con l’assistente che mi spiegava che se non poteva sostenere una tesi simile, in compenso era sicuramente in grado di aiutarmi a capire come svilupparla al meglio nel mio articolo.
Alla fine del confronto ho ringraziato ChatGPT e ho salutato. Per qualche minuto sono rimasto a fissare il vuoto, un po’ turbato perché per un attimo mi è sembrato di aver avuto una conversazione molto più interessante di quanto sarebbe potuto accadere con un essere umano.
Come finiscono queste storie
Chiacchierate così profonde con l’assistente virtuale non ne ho più avute, da quella volta. Ho provato, ma forse non ho trovato la pazienza, il tempo o anche solo le parole giuste. Di sicuro, senza il corso di Montemagno non avrei avuto neppure quella conversazione interessante, con ChatGPT.
La versione integrale del corso non l’ho acquistata, anche se sono stato tentato di farlo. A farmi rinunciare è stata la strana insistenza di Monty: un’infinità di mail con cui fino all’ultimo ha provato a convincermi ad approfittare della sua incredibile offerta a tempo. Il fatto è che nelle mail non ho più trovato la lingua di Montemagno che apprezzo, ma quella uguale a mille altre del marketer scafato: frasi brevissime, a capo ogni due righe, che per questo dovrebbero risultare particolarmente leggibili e dunque persuasive (a me stancano gli occhi).
Nel frattempo mi sono fatto un’idea precisa di cosa voglio dall’intelligenza artificiale. Vorrei smettere di stare seduto con la schiena curva a digitare su una tastiera per poter semplicemente parlare col mio assistente o quello che sarà, affidandogli le parti più meccaniche e meno interessanti del mio lavoro («il lavoro manuale delle attività intellettuali»); soprattutto, voglio la possibilità di spostare file-oggetti in forma di ologrammi nello spazio fisico come Tony Stark con Jarvis nei film Marvel, voglio poterli manipolare in un mix di realtà aumentata, realtà virtuale e intelligenza artificiale ma senza visori, occhiali o altri ammennicoli da indossare.
Alla fine ho scritto il mio articolo su Zelda. Oltre alle riflessioni condivise con ChatGPT, il pezzo incorpora alcuni frammenti da Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey. È uscito su Ludica lo scorso 21 febbraio e si può leggere qui.
Bonus: una vecchia puntata di Sobrietà
Nella prossima puntata
Parliamo di oggetti fisici, di carta, che fanno polvere e tendono a occupare molto spazio. Parliamo insomma di libri (e di promozione della lettura). Ci leggiamo il 6 aprile.
Molto bello l’articolo su Breath of the wild e Tears of the kingdom