Una volta Primo Levi ha scritto che “è bello raccontare i guai passati davanti al fuoco”. Allo stesso modo, può essere interessante riprendere argomenti su cui ci si è scannati in lungo e in largo a distanza di qualche tempo. In questo numero di Sobrietà parliamo con la giusta calma dello spot Esselunga che ha tenuto banco qualche mese fa. Cosa lo ha fatto funzionare, a prescindere dalle tante chiacchiere? E perché proprio la pesca? Buona lettura.
La pesca. Una storia Esselunga è stato probabilmente lo spot più discusso di questo 2023. Quando l’ho visto se n’era già parlato ovunque, per cui l’opinione che me ne sono fatto in prima battuta era viziata da quanto avevo visto e letto in proposito tra commenti, articoli e meme. Ho dovuto riguardarlo un altro paio di volte, per farmene un’idea (non più una semplice opinione) che fosse davvero mia.
C’è da dire che lo spot, in sé, non ha nulla di “virale”, né di “divisivo”, per usare due terribili termini giornalistici. La pesca non è di quei contenuti progettati per risultare esplicitamente controversi o ambigui e finire così dappertutto. Già il titolo, asciutto e per niente ammiccante, restituisce il desiderio di raccontare una storia semplice, che segni l’appartenenza a un marchio, cosa su cui peraltro quel marchio punta da sempre (l’appartenenza e la presenza sul territorio).
Ma allora perché se n’è parlato così tanto, fino a farne una questione persino politica?
La mia è idea è che, come spesso accade, nel caso de La pesca sia diventato virale il modo in cui parliamo di un contenuto, più che il contenuto in questione, e che la reazione generale allo spot abbia raccontato il nostro stanco e pettegolo bisogno di commentare qualsiasi cosa per intrattenerci e riempire il nulla generale del discorso pubblico, più che le intenzioni dello spot in sé.
Tuttavia, anche se non ha i tratti tipici della viralità, la scrittura de La pesca ha sicuramente le caratteristiche di una storia che richiede il coinvolgimento e la partecipazione attiva da parte di chi la riceve.
La vicenda della piccola Emma e dei suoi genitori ha molti vuoti e non detti che lasciano spazio all’immaginazione del pubblico. È un racconto che procede, nella sua brevità ed essenzialità, senza l’ansia di dire tutto dei suoi protagonisti e dei loro rapporti, e che soprattutto chiude in sospeso il finale, aprendosi quindi alle interpretazioni più disparate. In sintesi è una storia compiuta, che però lascia più domande che risposte in chi l’ha appena guardata.
Qualche esempio: non sappiamo chi sono e cosa fanno nella vita i due adulti (lei sembra benestante ma un po’ apprensiva, lui stanco, forse stressato per via del lavoro), soprattutto non conosciamo i motivi della loro separazione. Non sappiamo neppure se sia da escludere che possano tornare insieme, e infatti alla fine dello spot siamo portati a chiederci che conseguenze avrà l’azione che ha messo in moto la storia – il dono della pesca al padre da parte di Emma, la vera protagonista dello spot.
È con Emma che tendiamo a identificarci, a prescindere dalla nostra esperienza personale: non è necessario essere figli di genitori separati per sentire le emozioni della bambina (a proposito: in Italia, nel 2022, un bambino su tre è nato fuori dal matrimonio, per dire della “normalità” della famiglia e quindi del target di consumatori qui rappresentato).
Parteggiare per Emma ci porta a congetturare su tutti i punti oscuri del racconto. Quello che desideriamo è che la situazione si risolva, ma non avendo certezza che questo possa accadere – lo spot si ferma prima, lasciandoci in sospeso come in un testo di Raymond Carver o Anton Čechov1 – siamo portati a riesaminarla per distribuire torti e ragioni e arrivare così a discutere di massimi sistemi.
Ho fatto i nomi di due scrittori come Carver e Čechov, ma se vogliamo anche le fiabe e i racconti popolari funzionano in questo modo.
I personaggi archetipi e stilizzati (in questo caso la madre, il padre, la figlia) sono riconoscibili da chiunque e implicano una maggiore possibilità di immedesimazione;
Gli eventi vengono innescati dall’acquisizione e dall’utilizzo di un oggetto magico (la pesca) che dona poteri prima inimmaginabili alla protagonista (la possibilità di riunire la sua famiglia);
Gli archi e soprattutto gli intrecci narrativi sono semplici e facilmente leggibili, con la classica struttura in tre atti (antefatto, conflitto, scioglimento). Questo permette a chi riceve la storia di concentrarsi sulla successione di eventi per poi trarre le proprie conclusioni su ciò che è accaduto (o non è accaduto con certezza) al termine dell’avventura;
Infine, anche i sentimenti in gioco (amore, paura della perdita, dolore da separazione, desiderio di perdono e riconciliazione) sono tra quelli che sentiamo sia come individui che come specie: non necessitano di spiegazioni o grandi approfondimenti psicologici per essere compresi e suscitare emozioni.
Queste modalità di racconto portano naturalmente alla condivisione e alla rielaborazione collettiva di una storia (e al suo tramandarsi, nel caso della narrativa popolare). Che poi negli ambienti digitali condivisione e rielaborazione diventino scontro, tifoseria, discorso a tratti delirante, è la parte più triste di tutta questa vicenda (ben più triste di quella raccontata dallo spot).
Ma perché la pesca?
Negli innumerevoli tentativi di interpretazione del promo, molte domande giravano attorno al frutto scelto dalla bambina. Perché proprio la pesca? Non credo abbia molta importanza: come dicevo prima, la pesca è l’oggetto magico della storia; un oggetto magico – che si tratti di frutta, cappelli, armi, anelli o altro – non ha mai un significato univoco. Al contrario, ha bisogno di una certa ambiguità di fondo per funzionare sul piano simbolico all’interno di un racconto e durare nel tempo, passando così da una storia all’altra.
La mela di tanti miti e fiabe popolari assume significati di volta in volta diversi in culture altrettanto diverse: è il (falso) frutto dell’inganno, della conoscenza, della gelosia, della bellezza e della prosperità, nonché il pomo della discordia che porta alla Guerra di Troia.
In ambito pubblicitario (e senza tirare in ballo Apple, almeno per il momento), molti italiani hanno tuttora un ricordo indelebile del crunch della mela degli spot Mentadent. In quel caso, come nel poster qui sotto, la mela rappresentava la perfetta salute orale e dunque, in senso più ampio, benessere e felicità.
La pesca invece può essere simbolo di rinascita, bellezza, protezione dal male, immortalità, longevità del matrimonio. Dal 1985 è il nome della principessa della serie di videogiochi di Super Mario, mentre da qualche tempo è un emoji (🍑) molto utilizzata nel sexting (a quanto pare insieme alla melanzana 🍆).
Nel 2019, la pesca è diventata il simbolo della prima procedura di impeachment per l’allora Presidente degli Stati Uniti Donald Trump (im-peach-ment).
La mia teoria è che nel caso dello spot Esselunga la pesca sia stata scelta per esclusione oppure, perché no, come autocitazione. Nel 2001 era infatti diventata protagonista, insieme ad altri prodotti, della campagna “Famosi per la qualità”2. Dubito che un limone, un caco o una zucchina sarebbero stati più efficaci di una pesca per raccontare la storia di Emma.









Bonus: uno spot Apple, molto bello
Torniamo alle mele e parliamo di Apple, ma solo per citare il promo del servizio di Personal Voice di iPhone. Lo ha girato il regista, sceneggiatore e attore neozeolandese Taika Waititi3. Pubblicato lo scorso 3 dicembre in occasione della Giornata Mondiale delle Persone con Disabilità, il lavoro di Waititi dimostra che si possono tenere insieme comunicazione commerciale e sociale senza risultare fatalmente retorici. Da guardare fino alla fine.
Nel prossimo numero di Sobrietà:
Visto che ne abbiamo accennato, nel prossimo numero di Sobrietà approfondiremo la questione, molto spinosa, della viralità dei contenuti digitali. Ci leggiamo a gennaio 2024. Nel frattempo: buon Natale, buona fine e buon inizio.
«Il pittore Levitan è qui in visita. Ieri sera siamo andati a caccia; lui ha sparato a un beccaccino che, ferito a un’ala, è caduto in una pozza d’acqua. L’ho raccolto: un lungo becco, due grandi occhi neri e un bellissimo piumaggio. Mi guarda, stupito. Che farne? Levitan corruga la fronte, chiude gli occhi e mi prega, con un tremito della voce: “Caro, schiacciategli la testa col calcio del fucile.” Io rispondo: “Non ho il coraggio.” Lui seguita a stringersi nervosamente nelle spalle, a scrollare il capo e a implorare. E il beccaccino a guardarci con stupore. Ho poi dovuto obbedire a Levitan e ucciderlo. Una bella creatura innamorata di meno, e due imbecilli che tornano a casa e si mettono a tavola.»
Una lettera di Anton Čechov. Con la sua asciuttezza, questo racconto è ormai da anni la base per diversi corsi di scrittura creativa, anche in ambito pubblicitario.
Se ne parla in un articolo del 2021 pubblicato sulla Gazzetta del Pubblicitario.
What we do in the shadows, Jojo Rabbit, The Mandalorian e ben due Thor per i Marvel Studios, tra le altre cose. Senza dimenticare un bellissimo spot per Belvedere Vodka con Daniel Craig.